MY EXPERIENCE
Per parlare dell’esperienza nel teatro di Romeo Castellucci, devo cercare di tradurre, in un linguaggio verbale, l’esperienza del corpo.
Forse non sono in grado di colmare con le parole la sua arte, ma provo a creare una relazione per farne emergere un possibile contatto, con la cautela e il rispetto che merita la sua complessità.
I suoi spettacoli toccano in punti nevralgici, come una puntura che crea una scossa in zone contratte di noi stessi. Ci attraversa trasversalmente, come sa fare l’intuizione, che ci coglie interamente e per questo ci rende interi, che fa sentire l’anima in corpo.
Democracy in America è una riflessione su come è cominciata la tragedia americana.
Elizabeth, uno dei due personaggi che interpreto, è il personaggio attorno a cui verte lo spettacolo.
Vive in una comunità di Puritani, primi coloni americani, nel 1830.
Ha fame, è ridotta alla sopravvivenza. L’ideale della Terra Promessa è fallito.
La perdita della fede apre una crepa nel mondo entro cui è vissuta.
Il sistema mentale entro cui reggeva la sua esistenza crolla e lei VEDE. Ha accesso ad una rivelazione. Ha un’epifania.
Uscendo dal sistema ne vede il limite e crollano i principi.
Fuori dai sistemi, il sistema non ha senso. Lo spazio è più vasto, c’è il Vuoto.
Un Vuoto che crea vertigine ma è anche la vastità delle possibilità, della responsabilità individuale.
La cruda mancanza di Dio, che è però al contempo, un Rinascimento dell’essere umano.
E’ un gesto eroico, superare i limiti di un mondo. Vedere in che credenza siamo rinchiusi, uscire dal proprio cassetto.
Imparare a vedere, ecco la salvezza, ecco – forse- la possibilità dell’arte.
Democracy in America è anche una riflessione sul linguaggio.
Due nativi americani cercano di imparare la lingua dei coloni, che ha “altre parole”, perché ha “altre cose”. La lingua determina la definizione di ciò che esiste, della visione del mondo e quindi fa una cultura.
La nascita di una nuova parola, crea l’esistenza di qualcosa che prima era indicibile.
“In principio era il Verbo” mi sembra una formula esatta per dire: crea un linguaggio per creare un mondo.
(Non è un caso che nell’arte, avere il proprio linguaggio è una ricerca determinante. La forma, spesso, permette e crea anche il contenuto.)
I testi di Democracy in America, scritti da Claudia Castellucci, sono determinanti, il messaggio dello spettacolo è ‘detto’.
Una scrittura meravigliosa, che sfoglia il personaggio/messaggero petalo per petalo e arriva al suo centro.
L’ARTE COME OCCASIONE GENERATIVA
Il teatro è per me una zona franca, uno spazio vuoto, un terreno fertile delimitato dal resto del mondo.
Come in altri spazi sacri abbiamo, lì dentro, la possibilità di stare a contatto, di essere più esposti, di partecipare ad una discesa nel profondo, raggiungere uno stato creativo, lasciare che emerga una visione. Una nostra immagine.
Come nel sogno, abbandonarci, aprire un varco nel nostro petto, e far sì che una Eva nasca dalla nostra costola.
A me interessa quello stato di espansione che c’è in un luogo fertile, che è un’interazione tra lo sguardo e il guardato, che è l’incontro.
E, proprio come nei sogni, il sognatore è il miglior regista, perché sceglie gli elementi e gli attori più precisi a rappresentare la sua condizione, così Castellucci, nei suoi spettacoli, propone elementi che possono diventare simboli.
In uno spazio vuoto, crea uno stato atmosferico sensoriale, sceglie gli oggetti con cui interagirà lo sguardo dello spettatore. Crea cioè le condizioni perché il suo viaggio sia profondo.
Il suo teatro è per me un nutrimento vero. La sua ricerca, estremamente onesta. Conduce, ma non seduce.
Non c’è spettacolarizzazione, non crea mistero. “Il mistero c’è già.”- dice.