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A CHI MI CHIEDE “MA JAN FABRE”?

 

“Se sapevamo quello che facevamo, non l’avremmo chiamata ricerca, o sì?” – (Jan Fabre)

A marzo 2012 Fabre inizia a fare audizioni per creare una nuova compagnia e ri-allestire i due spettacoli che lo affermarono come l’enfant prodige  negli anni ’80. “Questo è il teatro com’era prevedibile e previsto” , della durata di una notte, 8 ore, da mezzanotte alle 8 del mattino e “Il potere della follia teatrale”, di 4 ore e mezzo.

Le audizioni hanno toccato varie città d’ Europa e vi hanno partecipato anche attori, performer e danzatori non europei.
E’ stata una selezione lunga,  in diverse fasi, scandite da lettere di motivazione, 3  per ognuno dei candidati, richieste man mano che si superavano le fasi della selezione.
Questo è indicativo per capire come Fabre scelga i suoi attori. Soprattutto per il mondo che ci portiamo dietro. Ha cercato caratteri forti con cui avere a che fare. Credo sia un atto di coraggio raro e ammirevole da parte di un regista.  Far entrare nel suo universo cervelli scalpitanti, i più arrabbiati forse, quelli che potrebbero fargli sgambetti, oltre che per capacità tecniche. Possibili co-creatori, che possano diventare bravi registi di se stessi.

L’ultima fase del provino si è tenuta ad Anversa ed è durata due settimane, dove per 10 ore al giorno con una trentina di artisti di nazionalità e culture diverse, ci siamo incontrati e scontrati sul palco. Il livello di competizione era altissimo, la fatica tanto forte da diventare illogica. Ma la fatica sembra sempre illogica, esasperante.
Ad una certa soglia, quando si sa che per limite umano non si può andare oltre ma si cerca comunque (ad esempio, quando l’indicazione del regista è di volare) la disperazione della nostra impotenza riassume in un’ ora quel che c’è di inrappresentabile della vita, ma che è profondamente vita.
O crudeltà, per dirla con Artaud.

Il corpo portato al limite fisico e psicologico, un limite che con l’allenamento ha cominciato a diventare più ampio.
Io l’ho affrontato cercando di fare esperienza, senza troppe psicologie. In modo primitivo. Grazie anche al fatto che capivo molto poco la lingua, non potevo proteggermi dietro alle parole. Le  parole sono sempre un maledetto compromesso, e quando gli si toglie il piedistallo, si sviluppano gli altri linguaggi: il suono che può diventare musica, il movimento del corpo…

Un incontro con l’origine, dove l’individualità non è l’epicentro, non è il punto di vista, né ci può essere l’esibizione dell’Ego. Ci si spoglia del ruolo per entrare nella magia di un rito arcaico, che entra a toccare corde profonde dell’animo umano.

Ma come si diventa un “guerriero della bellezza”? La preparazione, fisica e mentale,  è stata ed è quotidiana.
Nei due mesi di prove – 600 ore di allenamento per 12 ore di spettacolo- de  “Il potere della follia teatrale” e “Questo è il teatro com’era prevedibile e previsto” ,  abbiamo praticato un tipo di allenamento grotowskiano, tenuto dallo stesso Fabre, Yoga e Kendo, l’arte marziale giapponese strettamente legata ai principi zen del buddismo, usata nei secoli nelle preparazioni militari giapponesi. Pratiche per il controllo e lo sviluppo del corpo e della mente.
Non solo un allenamento fisico, muscolare, ma concentrazione che richiede la totale presenza, il famoso “qui e ora” , la capacità di muoversi in un corpo unico (siamo 15 attori ne “Il potere…” e 8 in “Questo è il teatro”). La sincronizzazione spazio/temporale. Attraverso l’esercizio fisico, la ricerca della “perfezione”.
Questa pratica non lascia scampo nemmeno nelle pause, è necessariamente quotidiana, ti segue ad ogni passo.

Può essere una ricerca profonda il teatro,  la scoperta di cosa c’è dietro ai “protocolli” sociali, al di là di ciò che noi chiamiamo realtà.
Ci chiediamo se il teatro sia rappresentazione della realtà,  gioco o la realtà stessa.
Credo che l’importante sia la ricerca, questo stimolo vitale dell’essere umano, che ha continuo bisogno di carburante, che sia gioia o rabbia, vitalità insomma, una necessaria nudità (intesa in senso metaforico) e la fantasia. Tutto entra nel processo creativo, che trova la sua estasi nel credere, il suo apice nella creazione.

Questi due spettacoli sono trasgressivi perché non si sa cosa sia reale e cosa no. Potrebbe accadere qualsiasi cosa. E’ un’esperienza rara per il pubblico. In un’epoca come la nostra, dove la soglia d’attenzione è breve, uno spettacolo di 8 ore destruttura il nostro abituale senso del tempo come può farlo un sogno o una droga.

Quando l’arte è arte l’impatto si sente e ti rompe il cuore, te lo spacca. Non è questione di cultura, è più profondo delle nozioni intellettuali. Come la musica che “fa piangere per peccati che non hai commesso” (cit. Oscar Wilde).

L’universo di Fabre è entrato nel mio percorso artistico che può apparire confusionario (visione pessimista) o eclettico (visione ottimista). Ho una formazione cinematografica, e anche i miei spettacoli, quelli di cui sono autrice, che hanno molto testo, e molto comico, possono apparire distanti dal teatro d’avanguardia di Fabre. E lo sono, in molti aspetti. Non posso dire di non aver sofferto. E’ stato uno scontro Mediterraneo/ Fiandre, doloroso.
Essere italiani significa venire da Michelangelo, da quel tipo di fisicità, esposta, materica, che ha formato il nostro senso estetico ed etico, influenza il nostro modo di vedere e di vivere. Abbiamo la prospettiva. Significa vivere all’aperto.
Il Belgio ha il surrealismo, Brueghel… si vivono gli interni. E’ un modo di vivere diverso che necessariamente accende immagini differenti. A me ha aperto altre visioni, ho iniziato a disegnare diversamente, mi aiuto molto con i disegni per il mio lavoro. Tutto si contamina e arricchisce quello che io sono e il mio immaginario. Credo sia una bella gravidanza… mi prometto solo di andare in profondità in ciò che faccio.